Ciao, scusate il ritardo.
Inviato: mer apr 04, 2018 3:12 pm
Buon giorno e buona luce a tutti voi.
Premesso che sono qui tra voi per imparare, vi dirò che per me fotografare è, prima di tutto, desiderio.
Indispensabile, irrefrenabile, desiderio. Un esercizio continuo che coinvolge mente e corpo e a causa del quale, spesso, mi ritrovo a fotografare immaginificamente, anche solo col pensiero, senza camera.
Ma per fotografare il mondo che ci circonda, non basta vederlo, bisogna imparare a guardarlo e, prima ancora, educarsi ad “ascoltarlo”. Fotografare mi insegna, passo dopo passo, tutto questo.
Lo scatto è sineddoche, parte di un tutto che si sviluppa, progredisce e si manifesta in momenti e luoghi, sia fisici che mentali, dislocati in spazi e tempi diversi.
Qualcuno sostiene che ogni scatto, anche quello realizzato nel modo più automatico e istintivo, ci descrive, racchiude in sé il nostro universo culturale, il mondo dei nostri valori, delle nostre relazioni e dei nostri sentimenti. Ogni scatto è ad un tempo razionalmente pre-meditato, pensato e, contemporaneamente, inconsapevolmente e inconsciamente voluto. Ogni scatto è ricerca: prima è ipotizzato, formulato; poi, una volta realizzato, è trattato, ri-pensato, finalizzato e solo alla fine, forse, mostrato.
Se è vero che in ogni nostra foto c’è una parte di noi, più o meno nascosta o visibile, è giusto allora affermare che ogni fotografo “è ciò che scatta”.
Fotografare ha inoltre a che fare, significativamente, col tempo e con l’ossessione che il tempo si porta appresso: l’angoscia della morte. Fermare il tempo, immortalare un istante affinché possa avere il sopravvento sull’ineluttabile destino di morte, è un gioco che va oltre l’origine della fotografia e che risale allo scontro primigènio dell’umanità tra Eros e Thanatos: fotografare è quindi anche per vivere e scattare è uno scongiuro, una sfida per affermare di “esserci”.
Ultimamente fotografare mi porta a scrivere, come se la foto mi invitasse a proseguire, con un altro linguaggio, il percorso di ricerca. E mi interrogasse e mi chiedesse di andare oltre. Lo scrivere non è mai per spiegare e mi pare più il desiderio di rin-tracciare un punto di riflessione al fine di una successiva ri-partenza, un gioco al rilancio: pensare, scattare, pensare, scrivere, ancora scattare e così di seguito.
In questo mio giostrare tra i due linguaggi, l’immagine cercata, desiderata, vorrebbe essere, così come ci suggerisce Carlo Riggi, un’immagine poco “satura”. Un’immagine che, nella sua incompiutezza, vorrebbe lasciare a chi legge un interrogativo, una domanda di senso.
Una fotografia dove – così come avviene per la poesia – ampio spazio è lasciato alla capacità di chi legge/osserva di trovare nuovi significati, di immaginare nuove interpretazioni. Il non detto – le assenze, i mossi, i tagli “inaccettabili”, le sgranature inautentiche, i fuori fuoco – per evocare, alludere, per suggerire interpretazioni altre.
Fotografare per offrire pre-testi allo scrivere e, così di seguito, scrivere per immagin-are nuove suggestioni fotografiche.
Premesso che sono qui tra voi per imparare, vi dirò che per me fotografare è, prima di tutto, desiderio.
Indispensabile, irrefrenabile, desiderio. Un esercizio continuo che coinvolge mente e corpo e a causa del quale, spesso, mi ritrovo a fotografare immaginificamente, anche solo col pensiero, senza camera.
Ma per fotografare il mondo che ci circonda, non basta vederlo, bisogna imparare a guardarlo e, prima ancora, educarsi ad “ascoltarlo”. Fotografare mi insegna, passo dopo passo, tutto questo.
Lo scatto è sineddoche, parte di un tutto che si sviluppa, progredisce e si manifesta in momenti e luoghi, sia fisici che mentali, dislocati in spazi e tempi diversi.
Qualcuno sostiene che ogni scatto, anche quello realizzato nel modo più automatico e istintivo, ci descrive, racchiude in sé il nostro universo culturale, il mondo dei nostri valori, delle nostre relazioni e dei nostri sentimenti. Ogni scatto è ad un tempo razionalmente pre-meditato, pensato e, contemporaneamente, inconsapevolmente e inconsciamente voluto. Ogni scatto è ricerca: prima è ipotizzato, formulato; poi, una volta realizzato, è trattato, ri-pensato, finalizzato e solo alla fine, forse, mostrato.
Se è vero che in ogni nostra foto c’è una parte di noi, più o meno nascosta o visibile, è giusto allora affermare che ogni fotografo “è ciò che scatta”.
Fotografare ha inoltre a che fare, significativamente, col tempo e con l’ossessione che il tempo si porta appresso: l’angoscia della morte. Fermare il tempo, immortalare un istante affinché possa avere il sopravvento sull’ineluttabile destino di morte, è un gioco che va oltre l’origine della fotografia e che risale allo scontro primigènio dell’umanità tra Eros e Thanatos: fotografare è quindi anche per vivere e scattare è uno scongiuro, una sfida per affermare di “esserci”.
Ultimamente fotografare mi porta a scrivere, come se la foto mi invitasse a proseguire, con un altro linguaggio, il percorso di ricerca. E mi interrogasse e mi chiedesse di andare oltre. Lo scrivere non è mai per spiegare e mi pare più il desiderio di rin-tracciare un punto di riflessione al fine di una successiva ri-partenza, un gioco al rilancio: pensare, scattare, pensare, scrivere, ancora scattare e così di seguito.
In questo mio giostrare tra i due linguaggi, l’immagine cercata, desiderata, vorrebbe essere, così come ci suggerisce Carlo Riggi, un’immagine poco “satura”. Un’immagine che, nella sua incompiutezza, vorrebbe lasciare a chi legge un interrogativo, una domanda di senso.
Una fotografia dove – così come avviene per la poesia – ampio spazio è lasciato alla capacità di chi legge/osserva di trovare nuovi significati, di immaginare nuove interpretazioni. Il non detto – le assenze, i mossi, i tagli “inaccettabili”, le sgranature inautentiche, i fuori fuoco – per evocare, alludere, per suggerire interpretazioni altre.
Fotografare per offrire pre-testi allo scrivere e, così di seguito, scrivere per immagin-are nuove suggestioni fotografiche.