Su gentile richiesta di Marco, riproduco alcune considerazioni pubblicate nel libro Tra arte e terapia. Utilizzi clinici dell'autoritratto fotografico", a cura di Fabio Piccini.
E' un testo un po' tecnico, ma può servire forse come base per una discussione più agile.
Fin dalla sua comparsa, la fotografia è stata associata all’idea della morte. La possibilità di riprodurre e tramandare istanti che, di fatto, già un attimo dopo lo scatto non esistono più è stata considerata come il tentativo magico onnipotente di sconfiggere il senso della fine. L’equivalente del gioco del “fort-da” del nipotino di Freud, il quale si divertiva a far sparire e ricomparire un rocchetto appeso a un filo, imparando così a gestire l’idea della separatezza della madre. La ripetibilità come dominio sull’assenza.
La fotografia attiva il tema perturbante del “doppio”, il bisogno dell’uomo di negare la realtà della morte dell’Io, che viene perciò duplicato attraverso la sua immagine.
Ripercorriamo con Marina Breccia i percorsi etimologici della parola “immagine”: essa proviene da “imago”, da questa deriva a sua volta “imare”, che con una trasformazione intensiva diventerà, sempre in latino, “imitari”. La comune radice indoeuropea “yem”, non certa, sta ad indicare il “doppio frutto”, ed è analoga alla radice “yam” di “gemello”, che in sanscrito fa”yama”, ad indicare “il paio” e “la coppia”. L’immagine contiene dunque in sé il doppio, ed è in grado di per sé di promuovere processi di separazione e differenziazione. Ma l’immagine del doppio può anche diventare più essenziale di colui che la produce e costituisce, per la sua immaterialità corporea, uno scudo immaginario contro la morte, difesa dall’annientamento oltre che rappresentazione del complesso di castrazione.
Il doppio, nell’immagine riflessa allo specchio, è per Lacan il fondamento delle radici dell’Io. Quell’immagine contiene sempre un enigma, una parte mancante, ciò che non può essere visto e conosciuto: lo sguardo stesso, l’oggetto a, che si congiunge inesorabilmente col senso della morte e della perdita, attiva il perturbante ma offre anche lo stimolo ai processi più evoluti della soggettivazione. A patto che il lavoro sul doppio, come ripetizione infinita e mortifera di un sé sempre uguale, comprenda il lavoro del lutto.
L’acquisizione del senso di realtà passa sempre attraverso la perdita, con l’introduzione del “terzo” (la legge del padre) che impone la separazione del soggetto dall’oggetto evitando che il soggetto collassi sull’oggetto, annullandovisi. L’alternativa è il delirio, come ricerca continua di ciò che non è, o la melanconia, come lutto inelaborabile per un ideale narcisistico impossibile da corrispondere.
Le origini di questo ideale narcisistico vanno ricercati nei primi momenti di contatto visuale tra la madre e il bambino. Il bambino piccolo costruisce la propria identità rispecchiandosi negli occhi della madre, in essi il piccolo non vede direttamente se stesso ma ritrova ciò che la madre pensa – e desidera- che egli sia. Il bambino ritrova negli occhi materni quel che egli è ma ancora non sa di essere. Allo stesso modo, il fotografo ritrova nei propri soggetti cose di sé che egli intuisce ma ancora non conosce.
Scrive Lambotte: "Molto più che una semplice proiezione della propria immagine, il valore dell’autoritratto sta nel vedere davanti a sé gli stessi occhi dai quali si è stati visti una prima volta. [...] l’autoritratto [è definito] non solo come una proiezione della propria immagine, ma soprattutto come il marchio originale dello sguardo che è stato rivolto su di sé; in altre parole, significa vedere dinanzi a sé quegli stessi occhi mediante i quali si è stati visti una prima volta".
Con l’autoritratto l’artista ricerca quindi il momento in cui si è visto prendere corpo nello sguardo della madre. Il primo autoritratto è probabilmente quello del bambino che per la prima volta chiude in un cerchio il suo scarabocchio e, così facendo, costituisce e delimita la prima iniziale rappresentazione di Sé. Una paziente di Myriam Fusini diceva che farsi l’autoritratto significava “mettersi al mondo da soli”.
L’autoritratto è sempre frutto del combinato di un rispecchiamento narcisistico e di un’identificazione isterica. Nel soggetto ritratto c’è sempre un altro me (l’autre moi di Claude Cahun), un altro da me e quindi, in definitiva, un altro di me (Thanopulos).
L’autoritratto è il perturbante freudiano per eccellenza: duplicazione del soggetto reale ma anche raffigurazione del sosia. Scrive Freud: "(nel doppio) si indagano le relazioni tra il sosia e l'immagine riprodotta nello specchio, tra il sosia e l'ombra, il genio tutelare, la credenza nell'anima e la paura della morte, ma anche si mette chiaramente in luce la sorprendente storia dell'evoluzione di questo motivo. Il sosia rappresentava infatti, in origine, un baluardo contro la scomparsa dell'Io, una "energica smentita dei potere della morte" (Rank), e probabilmente il primo sosia del corpo fu l'anima "immortale". La creazione di un simile doppione, come difesa dall'annientamento, trova riscontro in quella raffigurazione del linguaggio onirico che ama esprimere 1’evirazione mediante raddoppiamento o moltiplicazione del simbolo genitale: essa diventa, nella civiltà dell'antico Egitto, la spinta all'arte di modellare l'immagine del defunto in un materiale che duri nel tempo. Ma queste rappresentazioni sono sorte sul terreno dell'amore illimitato per se stessi, del narcisismo primario che domina la vita psichica sia del bambino che dell'uomo primitivo, e, col superamento di questa fase, muta il segno del sosia, da assicurazione di sopravvivenza esso diventa un perturbante presentimento di morte".
L’angoscia con cui ci rapportiamo al sosia richiama per via diretta il momento della separazione e della perdita che hanno caratterizzato angosciosamente la costituzione stessa dell'Io infantile: un'esperienza che si colloca fra il doloroso distacco dall'oggetto narcisistico e l'angoscia per l'estraneo, tappe che segnano la strada dell'individuazione, passando attraverso l'identificazione. Il riconoscimento infantile di sé nello specchio, come descritto da Lacan, ha come suo precursore proprio il rapporto di reciproco rispecchiamento del bambino nella madre.
Il sentimento di onnipotenza costituisce una potente difesa di fronte all’esperienza di inadeguatezza e di dipendenza infantile e contro ogni successiva minaccia di annientamento del soggetto. Tale minaccia può essere affrontata con la creazione di una nuova rappresentazione di sé, un’immagine del tutto simile all'Io corporeo, un vero e proprio doppio, al fine di negare il pensiero della propria morte attraverso uno sdoppiamento dell'Io sotto forma di ombra o di riflesso, come ne "Lo studente di Praga" di E.T.A. Hoffman, o ne “Il ritratto di Dorian Gray” di O.Wilde.
La fotografia raffigura ciò che non c’è più e determina e riaccende cose che avrebbero potuto essere. Nel momento in cui fotografiamo ci innestiamo nel flusso del destino, qualcosa che conosciamo ma di cui non abbiamo rappresentazione e quindi memoria.
Far fotografie, così come qualunque altra attività, prevede un committente. Nella fotografia di moda, di cibo, di architettura o nel reportage giornalistico il committente è noto, ma nella fotografia spontanea, oziosa, praticata dalla maggior parte dei fotoamatori, e nella ricerca estetica o artistica, in questi casi chi è il committente? In genere si dice che questo tipo di fotografia è fatto per sé, il committente siamo dunque noi stessi. Sì, ma che cos’è questo Sé? Cosa muove la nostra ricerca? Chi ci chiede di scattare una foto?
Succede talvolta di sentirsi spinti a fotografare da una necessità impellente, indifferibile anche se non esplicita nelle sue motivazioni. Capita di passare interi periodi scattando la stessa foto, caratterizzata da un qualche tratto ricorsivo; immagini delicate e tenui, oppure forti, dure, spigolose, con risultati talora bizzarri eppure appaganti. Situazioni particolarmente pregnanti sul piano emotivo possono tradursi in lunghe sequenze di sogni ricorrenti, o in una serie ripetitiva di scatti fotografici. In entrambi i casi, in modo simile, opera una silente funzione terapeutica, i cui effetti possono dopo, a “guarigione” avvenuta, rendersi disponibili al pensiero.
Le foto seriali si configurano spesso come percorsi di andata e ritorno attraverso una soglia tra conscio e inconscio, tra realtà e fantasia, tra passato e presente, tra me e non-me. L’immagine diventa lo strumento con cui la coscienza prende contatto con l’impensabile. La stessa funzione terapeutica potrebbe essere svolta da una singola immagine particolarmente riuscita, ma risulta più evidente all’interno di ampie sequenze, specie quando esse risultino ridondanti nei contenuti o in certi elementi formali. Fissazioni compositive, elementi reiterati, veri e propri tic stilistici.
Il “doppio” è la raffigurazione di un sosia parassitario, il compagno segreto di Conrad, il gemello immaginario di Bion, una parte del soggetto che si distacca diventando fantasma, presentimento di morte, oggetto persecutorio, presenza estranea eppure familiare. Raffigurandole, queste parti pssono differenziarsi, integrarsi, fare pace tra loro.
Scrive Barthes: “A volte la fotografia fa apparire ciò che non si coglie mai di un volto reale (o riflesso in uno specchio): un tratto genetico, il pezzo di se stessi o d’un parente che ci viene da un ascendente”.
Tempo fa scrissi qui sul forum una nota sul Selfie, credo che sia in tema:
viewtopic.php?f=5&t=787
Il committente e il doppio
- Carlo Riggi
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Il committente e il doppio
Ciao
Carlo
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- MarcoBiancardi
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Re: Il committente e il doppio
Carlo, grazie per la prontissima risposta alla mia sollecitazione.
Nei limiti delle mie capacità o letto tutto con interesse e soprattutto ho riletto quanto già avevi postato e che non ricordavo colpevolmente
Nei limiti delle mie capacità o letto tutto con interesse e soprattutto ho riletto quanto già avevi postato e che non ricordavo colpevolmente