Nel variegato mondo della fotografia si sta diffondendo una forma di idiosincrasia per le emozioni. O, meglio, per quei fotografi che della capacità di emozionare fanno la cifra del proprio manifesto. Una sorta di “dagli all'autore” mirato a preservare la purezza della Fotografia dalla gramigna dell’impressionismo, o in generale - apriti cielo! – dell’Arte.
I sostenitori di questa crociata ritengono che la deriva artistica della fotografia sia una aberrazione imposta dalla venalità dei galleristi, e la ricerca delle emozioni null'altro che una svenevolezza ottocentesca, o una furberia tesa ad ammantare di significati mistici opere di per sé vuote, prive di alcuna valenza testimoniale. Perché questa è l'unica funzione riconosciuta alla fotografia, aiutare a capire come funziona il mondo e raccontarlo, senza cedimenti alla bellezza, ai sentimenti o a vacue millanterie concettuali.
Alla pari del termine artista, viene ostracizzato anche quello di autore, perché non c'è alcuna realtà da creare, secondo questi amici. Dimentichi, tuttavia, che autore etimologicamente significa promotore, “colui che fa crescere”, e non “colui che crea”.
Confesso di sentirmi coinvolto in questa caccia alle streghe, visto che da tempo dico e scrivo di considerare la capacità di emozionare il parametro più importante di una buona fotografia, insieme a un altro, più prosaico, che è il desiderio di acquistarla (i complimenti sono sospettabili di mera compiacenza, se non accompagnati da una concreta pulsione di possesso).
Afferma Michele Smargiassi che fotografo è “chiunque riservi alla fotografia un posto importante nella propria vita”, a prescindere se ne faccia una professione o un hobby. Sono d'accordo con lui.
E però, se è chiaro il motivo che spinge un professionista a pensare con continuità all'attività che gli dà da vivere, più difficile è capire cosa motivi il semplice appassionato.
Feticismo, senz’altro (il fotografo è sempre anche un appassionato di attrezzature, il cui possesso e utilizzo sublima una quantità di pulsioni che il dott. Freud saprebbe certamente elencare). Una gratificazione legata alla speciale captazione a distanza con la quale il fotografo si appropria delle immagini e delle vite altrui, la perversione con la quale egli gioca a relazionarsi col mondo senza mai toccarlo, certo. Aggiungiamo pure lo spirito di emulazione, che sostiene la gran parte dei fotoamatori (il nefasto “vorrei averla fatta io”, germe letale di ogni aspirazione della fotografia ad avere un mercato collezionistico). Oltre questo, però, dobbiamo supporre che quest'hobby assecondi altri istinti, correlati al potenziale rappresentativo della fotografia e al nostro bisogno di dare espressione a istanze altrimenti silenti, che divengono rintracciabili solo attraverso i derivati narrativi legati al gioco, al sogno, all’arte.
La rappresentazione è una modalità trasformativa e conoscitiva; non coincide col raccontare (inteso nella sua forma narrativa verbale), ed è l’opposto di riprodurre. Rappresentazione e conoscenza sono legate da un rapporto non causale, ma sinergico e sincronico: l'una e l'altra procedono di pari passo e si alimentano a vicenda. Il nostro bisogno di fotografare nasce da un’esigenza epistemofilica, e dal bisogno di liberarci, rappresentandolo, dell’inelaborato che ci intasa la mente.
Quel che possiamo rappresentare (e conoscere) in fotografia è il combinato di una preconcezione e di un incontro, mediato dall'apparecchio. Non possiamo conoscere nulla che non sia già iscritto nella nostra mente (mnemonica, sensoriale, percettiva), e non rientri all’interno della predisposizione strutturale dell'apparecchio in uso. La rappresentazione è un processo trasformativo che attraversa i territori della curiosità, dello stupore, dell’allucinazione, senza i quali non c’è vera conoscenza, ma solo descrizione, raffigurazione, duplicazione, copia.
Qual è l'agente che rende possibile questa capacità trasformativa, se non l'emozione?
L'emozione non è una smanceria romantica, come sembrano suggerire quegli amici. È un filtro, un reattivo clinico, l'interfaccia che ci permette di contattare e comprendere profondamente l'esperienza che stiamo vivendo in un dato momento. Sia essa “esterna” o “interna”, cosciente o inconscia.
I nemici dell'emozione oppongono ad essa la funzione di conoscenza e narrazione del mondo, vera missione della fotografia, senza tuttavia considerare che è proprio l'emozione lo strumento di cui noi umani siamo dotati per conoscere e interpretare il mondo. Il modo più fine ed efficace di farne esperienza, e di condividerla.
A meno che non scambiamo per conoscenza l'aspetto retinico, il visibile, che però è solo parvenza, traccia di superficie, indizio certo importante, ma insufficiente per penetrare i significati profondi dell'esperienza.
Privi dell'emozione, cosa resterebbe di tante pietre miliari dell'immaginario fotografico? Cosa sarebbe dei ragazzini di “Rue Mouffetard” e ”Arena di Valencia” immortalati dal maestro Henri Cartier Bresson? Un monello che porta due bottiglie di vino, un altro che si imbuca in una corrida? Bastano le informazioni per fare grande una fotografia? È l'emozione che determina il potere identificatorio di quelle immagini, fa sì che esse acquistino un senso universale e occupino un posto permanente nel nostro immaginario, perché attraverso quelle emozioni ri-conosciamo parti di noi all’interno di una agibile cornice di senso.
Che tutto questo sia determinato da una serie di parametri assai ben strutturati, fa parte della semiologia, della psicologia della percezione e di un bagaglio di competenze, teoriche ma anche artigianali, che il fotografo – e non solo il critico – è giusto che possieda e coltivi.
Maneggiare le emozioni non può mai rispondere a una programmazione compiuta e precisa, ma non è neppure un fatto così naïf, come alcuni ritengono.
Bene fanno i critici a stigmatizzare l'eccesso di spontaneismo e a sostenere la necessità di buone basi tecniche, di studio e confronto continui, di quel pensare con assiduità alla fotografia senza il quale non si è fotografi ma “fotografanti” (ancora Smargiassi). Ma questa esigenza non può essere contrapposta, per quanto ho provato a spiegare, all’emozione in quanto tale. Perché è proprio l'emozione la base fondante di qualunque atto trasformativo e conoscitivo, il prerequisito di una fruizione adulta della fotografia, che sappia emanciparsi dalla sterile ritualità del like.
Henri Cartier Bresson "Rue Mouffetard", 1954
Che vi hanno fatto le emozioni?
- Carlo Riggi
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Che vi hanno fatto le emozioni?
Ultima modifica di Carlo Riggi il mer mag 01, 2019 1:13 pm, modificato 3 volte in totale.
Ciao
Carlo
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- MarcoBiancardi
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Re: Che vi hanno fatto le emozioni?
La Fotografia ha quasi infinite componenti e sfaccettature e tra queste vi è l’arte e l’arte che cos’ è se non emozione?
Quindi è semplice il sillogismo Fotografia - Arte - Emozione; modificando la posizione relativa dei tre elementi il sillogismo resta valido.
Molteplici sono poi le forme che l’arte fotografica può assumere da quelle più inclini al pittorialismo e minor realismo (e da qui un certo tipo di collezionismo e di aspetti galleristico-commerciali) a quelle più vicine al documento ed al realismo, come nel caso dell’immagine di HCB che hai scelto per illustrare il tuo interessante e approfondito intervento: apparentemente documento puro, ma che l’occhio, il cuore, la sensibilità e la tecnica dell’artista fotografo fanno crescere, maturare, trasformare (l’autore!) in un’emozione universale.
Quindi è semplice il sillogismo Fotografia - Arte - Emozione; modificando la posizione relativa dei tre elementi il sillogismo resta valido.
Molteplici sono poi le forme che l’arte fotografica può assumere da quelle più inclini al pittorialismo e minor realismo (e da qui un certo tipo di collezionismo e di aspetti galleristico-commerciali) a quelle più vicine al documento ed al realismo, come nel caso dell’immagine di HCB che hai scelto per illustrare il tuo interessante e approfondito intervento: apparentemente documento puro, ma che l’occhio, il cuore, la sensibilità e la tecnica dell’artista fotografo fanno crescere, maturare, trasformare (l’autore!) in un’emozione universale.
- Giuseppe Pagano
- Messaggi: 20
- Iscritto il: mer feb 14, 2018 8:49 pm
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Re: Che vi hanno fatto le emozioni?
Grazie Carlo per la ennesima, interessante riflessione.
Sarò crudo e poco diplomatico in questo commento, quindi chiedo scusa anticipatamente.
Mi sposto un po' di lato e passo dalla emozione all'arte. La polemica però spesso coincide, quindi...
Chi - pur di elevata statura intellettuale - disprezza
un'arte fine a sé stessa,
che non smuove nulla a livello sociale,
che non si contrappone, incrinandola, all'onda portante degli ultimi anni,
che non può essere spiegata, ricondotta a categorie logiche,
che non documenta nessuna storia o condizione,
che non si regge su una concettualità articolata,
che non esprime una raffinatezza secondo canoni riconosciuti,
che non ha un riconoscimento commerciale,
che non fa sussultare per l'originalità,
che non si iscrive - pur con varianti - in un filone consolidato,
è perché o non si tratta di arte, o semplicemente non riesce ad intercettarla.
La seconda ipotesi non viene nemmeno presa in considerazione, ovviamente: ognuno di noi pensa di poter comprendere tutto. In genere non si accetta ciò che non è spiegabile razionalmente, ciò che si trova oltre.
E da qui la massima irritazione per una concezione di arte non democratica, che non può essere fruita da tutti e men che meno prodotta.
Per questi signori l'arte deve lasciare il segno evidente, incidere: altrimenti è reiterazione di espressività passate. Va oltre, tocca corde profonde, per un attimo rende visibile l'invisibile? "Dimostramelo!"
Col piffero. Possiamo parlarne, e magari qualcuno riuscirà anche a farlo benissimo, a smuovere chi non era sceso in profondità, a sottolineare aspetti che altrimenti giacerebbero seninascosti. Ma l'arte, di per sé, non è spiegabile.
Fermo restando che di superficialità e fesserie fotografiche il sistema dell'arte non ne è pieno, ne è strapieno. Da non poterne più.
Non riesco a discutere di emozione, perché è un termine insidioso, che si presta alle più varie interpretazioni, origina false contrapposizioni. Tu ne farai un uso corretto, da bravo psicanalista, ma sai meglio di me che in letteratura fotografica con esso si sottintende tutto e il contrario di tutto.
Senza riferimento a nessuno in particolare, s'intende. Come dici tu, è da tempo che tira quest'aria.
Grazie ancora, ciao!
Sarò crudo e poco diplomatico in questo commento, quindi chiedo scusa anticipatamente.
Mi sposto un po' di lato e passo dalla emozione all'arte. La polemica però spesso coincide, quindi...
Chi - pur di elevata statura intellettuale - disprezza
un'arte fine a sé stessa,
che non smuove nulla a livello sociale,
che non si contrappone, incrinandola, all'onda portante degli ultimi anni,
che non può essere spiegata, ricondotta a categorie logiche,
che non documenta nessuna storia o condizione,
che non si regge su una concettualità articolata,
che non esprime una raffinatezza secondo canoni riconosciuti,
che non ha un riconoscimento commerciale,
che non fa sussultare per l'originalità,
che non si iscrive - pur con varianti - in un filone consolidato,
è perché o non si tratta di arte, o semplicemente non riesce ad intercettarla.
La seconda ipotesi non viene nemmeno presa in considerazione, ovviamente: ognuno di noi pensa di poter comprendere tutto. In genere non si accetta ciò che non è spiegabile razionalmente, ciò che si trova oltre.
E da qui la massima irritazione per una concezione di arte non democratica, che non può essere fruita da tutti e men che meno prodotta.
Per questi signori l'arte deve lasciare il segno evidente, incidere: altrimenti è reiterazione di espressività passate. Va oltre, tocca corde profonde, per un attimo rende visibile l'invisibile? "Dimostramelo!"
Col piffero. Possiamo parlarne, e magari qualcuno riuscirà anche a farlo benissimo, a smuovere chi non era sceso in profondità, a sottolineare aspetti che altrimenti giacerebbero seninascosti. Ma l'arte, di per sé, non è spiegabile.
Fermo restando che di superficialità e fesserie fotografiche il sistema dell'arte non ne è pieno, ne è strapieno. Da non poterne più.
Non riesco a discutere di emozione, perché è un termine insidioso, che si presta alle più varie interpretazioni, origina false contrapposizioni. Tu ne farai un uso corretto, da bravo psicanalista, ma sai meglio di me che in letteratura fotografica con esso si sottintende tutto e il contrario di tutto.
Senza riferimento a nessuno in particolare, s'intende. Come dici tu, è da tempo che tira quest'aria.
Grazie ancora, ciao!
Giuseppe Pagano
www.giuseppepagano.eu
www.giuseppepagano.eu
Re: Che vi hanno fatto le emozioni?
"Ogni cosa che vedi sul vetro della tua Rolleiflex è la realtà, le cose come sono. La Fotografia è cosa deciderai di farne."
George Rodger
George Rodger