La foto nel cassetto
Inviato: mer gen 30, 2019 3:17 pm
Una vecchia fotografia ritrovata in un cassetto, i bordi ingialliti. Dal fondo lattiginoso emergono figure più scure, sfumate seppia, forme che ci paiono estranee e familiari, statiche ma anche mutevoli, antiche eppur dotate di una loro attualissima vitalità. Ci perdiamo a guardarla e, per qualche attimo, viviamo l'esperienza del sogno. Con quanto ne segue, le tracce sfuggenti e cangianti che sempre i sogni ci lasciano al risveglio, quando proviamo a ricordarli. Facciamo fatica a mantenere nitidi i dettagli, ma quasi sempre resta vivida l'emozione.
Nel sogno, come nella fotografia, le emozioni sono più profonde e durature di qualunque finezza tecnica.
Una figura geometrica appare davanti ai nostri occhi, più spesso un rettangolo, qualche volta un quadrato. E' la prima cosa che percepiamo, la forma del fotogramma, senza che ce ne rendiamo conto, presi come siamo a tuffarci con ingordigia nel contenuto. Come se la forma non lo determinasse in buona quota, il contenuto. Il rettangolo orizzontale invita ad una lettura da sinistra verso destra, quello verticale stimola a muoversi dall'alto in basso. Il quadrato è più complesso, un sistema a infiniti gradi di libertà, con vettori che muovono in ogni senso, dal basso verso l'alto, in diagonale e persino in moto circolare.
Il verso della lettura è fondamentale per decodificare i contenuti di una immagine, perché stabilisce i nessi causali, le relazioni tra le parti, l'avvicendamento cronologico, le sequenze, la ricombinazione gestaltica degli elementi.
Una volta dentro il fotogramma, la nostra percezione viene determinata da ineluttabili forze gravitazionali, e cominciamo allora a muoverci per esplorare il piccolo mondo.
La lettura parte da un bordo, ma il primo, istintivo sguardo è sempre centrale. Un dettaglio in mezzo al fotogramma, per quelli che hanno un approccio appercettivo di tipo pratico, oppure una immediata visione d'insieme, per coloro che adottano di preferenza un approccio di tipo globale. Questo primo sguardo procura relativamente poche informazioni sul contenuto della foto, ma è determinante nell'orientare la disposizione del fruitore verso l'immagine. Molto dipende dal gusto personale, ovviamente, la presenza di un colore forte può diventare motivo di attrazione per alcuni, o di fastidio per altri.
Dopo questo primo colpo d'occhio comincia l'esplorazione vera e propria.
Ci sono due momenti nella fruizione di una foto, una a occhi aperti, l'altra a occhi chiusi. Osservare una fotografia è come osservare uno specchio: a occhi aperti vediamo l'immagine riflessa, ma vediamo anche l'oggetto specchio, il suo stato, le eventuali imperfezioni della superficie, le ossidazioni, la polvere, il disegno della cornice. Valutiamo il suo potere riflettente, le aberrazioni, le distorsioni, i viraggi cromatici. Tutto ciò che attiene allo studium, per dirla con Barthes. Ma è a occhi chiusi che penetriamo la fotografia, è così che possiamo vedere noi stessi: il nostro sogno all'interno del sogno dell'autore. Che è poi l'unica cosa che mi interessa davvero della Fotografia, feticismi a parte.
Eccolo dunque questo piccolo ritrovamento, una vecchia foto di famiglia. Una memoria vivente.
Abbiamo un'idea distorta della memoria. Pensiamo che sia statica, mera rappresentazione di qualcosa che è stato e non è più, una forma di “commemorazione psichica”. Più o meno la stessa idea abbiamo della fotografia, della quale pensiamo che non soltanto rievochi cose morte, ma che le uccida essa stessa, eternandole in uno stato di inerme mummificazione.
La memoria e la fotografia sono vive, invece.
La memoria non è un magazzino, è una funzione della mente. Allo stesso modo, la fotografia non è un archivio di cose ormai accadute, è un enzima, in grado di stimolare continue trasformazioni.
Le memorie, fotografiche e non, interagiscono col nostro presente emozionale e si modificano senza sosta, in quel che i francesi chiamano après coup, un incessante processo di ricategorizzazione semantica.
Quel che ritroviamo in una foto – almeno nello stato “occhi chiusi” - non è la spoglia di un passato concluso, è una sponda dialettica per significati in continua ridefinizione, memoria di eventi in divenire, o mai davvero avvenuti: memoria del futuro, direbbe Bion.
La vecchia fotografia ingiallita ritrova smalto ad ogni nuova apertura del cassetto, ci scruta, ci interroga, si nutre delle nostre emozioni e svela cose che gli uni e l'altra non conoscevamo ancora, di noi stessi e della storia intorno a noi.
Vedersi bambini in una vecchia foto di famiglia accende cortocircuiti temporali, una sorta di paradosso dei gemelli di sapore ensteiniano. Il bambino della foto e quello dentro di noi hanno continuato le loro vite parallele, consegnandosi al passare del tempo in fogge diverse, ma indissolubilmente legate. Raccontandosi vicendevolmente le loro storie parallele, essi possono ritrovare il senso profondo di percorsi apparentemente casuali e caotici, rimettendo ordine e pensiero, storicizzando, significando, simbolizzando contenuti altrimenti destinati a rimanere inelaborati. Anche per questo la fotografia è terapeutica, e l'autoritratto lo è ancor di più.
Fotografiamoci, selfiamoci, riprendiamo i nostri figli, i nostri genitori, i nostri amici, i nostri cari tutti, la gente intorno a noi. Fanculo la privacy! Facciamolo con cura, con dedizione, con amore. La fotografia ci aiuta a tenere attivi memoria e pensiero, a mantenere dritte le rotte, individuali e collettive.
Sì, la fotografia può curare il mondo. Quando non si prende troppo sul serio. Quando sa resistere alla facile compiacenza estetica. Quando non urla. Quando non abbaglia con troppi effetti speciali. Quando si lascia gustare ad occhi chiusi.
Nel sogno, come nella fotografia, le emozioni sono più profonde e durature di qualunque finezza tecnica.
Una figura geometrica appare davanti ai nostri occhi, più spesso un rettangolo, qualche volta un quadrato. E' la prima cosa che percepiamo, la forma del fotogramma, senza che ce ne rendiamo conto, presi come siamo a tuffarci con ingordigia nel contenuto. Come se la forma non lo determinasse in buona quota, il contenuto. Il rettangolo orizzontale invita ad una lettura da sinistra verso destra, quello verticale stimola a muoversi dall'alto in basso. Il quadrato è più complesso, un sistema a infiniti gradi di libertà, con vettori che muovono in ogni senso, dal basso verso l'alto, in diagonale e persino in moto circolare.
Il verso della lettura è fondamentale per decodificare i contenuti di una immagine, perché stabilisce i nessi causali, le relazioni tra le parti, l'avvicendamento cronologico, le sequenze, la ricombinazione gestaltica degli elementi.
Una volta dentro il fotogramma, la nostra percezione viene determinata da ineluttabili forze gravitazionali, e cominciamo allora a muoverci per esplorare il piccolo mondo.
La lettura parte da un bordo, ma il primo, istintivo sguardo è sempre centrale. Un dettaglio in mezzo al fotogramma, per quelli che hanno un approccio appercettivo di tipo pratico, oppure una immediata visione d'insieme, per coloro che adottano di preferenza un approccio di tipo globale. Questo primo sguardo procura relativamente poche informazioni sul contenuto della foto, ma è determinante nell'orientare la disposizione del fruitore verso l'immagine. Molto dipende dal gusto personale, ovviamente, la presenza di un colore forte può diventare motivo di attrazione per alcuni, o di fastidio per altri.
Dopo questo primo colpo d'occhio comincia l'esplorazione vera e propria.
Ci sono due momenti nella fruizione di una foto, una a occhi aperti, l'altra a occhi chiusi. Osservare una fotografia è come osservare uno specchio: a occhi aperti vediamo l'immagine riflessa, ma vediamo anche l'oggetto specchio, il suo stato, le eventuali imperfezioni della superficie, le ossidazioni, la polvere, il disegno della cornice. Valutiamo il suo potere riflettente, le aberrazioni, le distorsioni, i viraggi cromatici. Tutto ciò che attiene allo studium, per dirla con Barthes. Ma è a occhi chiusi che penetriamo la fotografia, è così che possiamo vedere noi stessi: il nostro sogno all'interno del sogno dell'autore. Che è poi l'unica cosa che mi interessa davvero della Fotografia, feticismi a parte.
Eccolo dunque questo piccolo ritrovamento, una vecchia foto di famiglia. Una memoria vivente.
Abbiamo un'idea distorta della memoria. Pensiamo che sia statica, mera rappresentazione di qualcosa che è stato e non è più, una forma di “commemorazione psichica”. Più o meno la stessa idea abbiamo della fotografia, della quale pensiamo che non soltanto rievochi cose morte, ma che le uccida essa stessa, eternandole in uno stato di inerme mummificazione.
La memoria e la fotografia sono vive, invece.
La memoria non è un magazzino, è una funzione della mente. Allo stesso modo, la fotografia non è un archivio di cose ormai accadute, è un enzima, in grado di stimolare continue trasformazioni.
Le memorie, fotografiche e non, interagiscono col nostro presente emozionale e si modificano senza sosta, in quel che i francesi chiamano après coup, un incessante processo di ricategorizzazione semantica.
Quel che ritroviamo in una foto – almeno nello stato “occhi chiusi” - non è la spoglia di un passato concluso, è una sponda dialettica per significati in continua ridefinizione, memoria di eventi in divenire, o mai davvero avvenuti: memoria del futuro, direbbe Bion.
La vecchia fotografia ingiallita ritrova smalto ad ogni nuova apertura del cassetto, ci scruta, ci interroga, si nutre delle nostre emozioni e svela cose che gli uni e l'altra non conoscevamo ancora, di noi stessi e della storia intorno a noi.
Vedersi bambini in una vecchia foto di famiglia accende cortocircuiti temporali, una sorta di paradosso dei gemelli di sapore ensteiniano. Il bambino della foto e quello dentro di noi hanno continuato le loro vite parallele, consegnandosi al passare del tempo in fogge diverse, ma indissolubilmente legate. Raccontandosi vicendevolmente le loro storie parallele, essi possono ritrovare il senso profondo di percorsi apparentemente casuali e caotici, rimettendo ordine e pensiero, storicizzando, significando, simbolizzando contenuti altrimenti destinati a rimanere inelaborati. Anche per questo la fotografia è terapeutica, e l'autoritratto lo è ancor di più.
Fotografiamoci, selfiamoci, riprendiamo i nostri figli, i nostri genitori, i nostri amici, i nostri cari tutti, la gente intorno a noi. Fanculo la privacy! Facciamolo con cura, con dedizione, con amore. La fotografia ci aiuta a tenere attivi memoria e pensiero, a mantenere dritte le rotte, individuali e collettive.
Sì, la fotografia può curare il mondo. Quando non si prende troppo sul serio. Quando sa resistere alla facile compiacenza estetica. Quando non urla. Quando non abbaglia con troppi effetti speciali. Quando si lascia gustare ad occhi chiusi.