Sulla previsualizzazione
Inviato: gio feb 21, 2019 3:38 pm
La felicità è fatta di attimi di dimenticanza *
Con il termine “previsualizzazione” indichiamo la capacità del fotografo di prefigurare nella sua mente il risultato finale di uno scatto, al netto dello sviluppo e della eventuale postproduzione. Una dote importante, visto che la fotografia – analogica o digitale che sia – attraversa un processo intermedio (tecnologico, meccanico, chimico o elettronico), durante il quale il fotografo non ha quasi alcuna possibilità di intervento, e a cui si limita a dare avvio e una prima direzione.
Si potrebbe pensare che la previsualizzazione avvenga sempre molto tempo prima dello scatto, magari al momento uscire di casa per fotografare. Per molti, in effetti, la fotografia si riconduce alla realizzazione il più fedele possibile di un'idea già ben strutturata nella propria mente. Una concezione attiva del fotografare, totalmente dipendente dall'intenzione dell'autore.
Non funziona sempre così.
Per me, realizzare una fotografia è qualcosa di assai meno precostituito. Una fotografia è frutto dell'effetto combinato di una predisposizione d'animo, solo in parte consapevole, dello strumento in uso e dell'incontro con un dato di realtà. Ciascuno di questi elementi impone una propria “volontà”. In questa logica, la previsualizzazione non è solo una capacità prefigurativa del risultato finale (immaginare i passaggi tecnici attraverso i quali si possa arrivare all'esito desiderato, adattando all'uopo i parametri di scatto), previsualizzare è interrogare la materia, entrare con essa in un dialogo silente e profondo. Come dico spesso, gli oggetti, se li guardiamo a lungo, con intenzione, dopo un poco ci parlano. È in quel momento che prende origine la fotografia, è a quel punto che possiamo iniziare a “vederla”. Non come frutto di un proposito esplicito, ma come esito dinamico di un confronto, di una suggestione, di una negoziazione emotiva tra fotografo e soggetto, mediata dalla fotocamera. Frutto di un sogno, potremmo dire, non come raffigurazione di un sogno precedentemente avvenuto: penso al fotografare come in se stesso sognare.
Previsualizzare è realizzare una sintesi tra più elementi: preconcezione, perturbazione emotiva, condizioni ambientali, soggetto, dotazione tecnica, caso. A questi va aggiunto lo stile personale.
Lo stile non è una coazione, un vezzo, un tic o, peggio, una furberia del marketing. Lo stile è la sintonia profonda che ci permette di meglio interpretare le nostre istanze emozionali in continua evoluzione. L'affinamento dello stile personale presuppone studio, fatica, sofferenza, introspezione. Se lo stile segue unicamente le leggi del compiacimento o del gradimento formale, esso non potrà mai essere al servizio della capacità espressiva e trasfigurativa dell'autore, ma si ridurrà a un mero processo emulativo ed autocelebrativo. Fotografare diventa copiare se stessi: una fredda e vuota stereotipia. Come capita a certi autori, che ripetono pavlovianamente sempre la stessa foto, quell'unico pattern che ha dato loro riconoscibilità, gratificazione e successo, e dal quale non sanno, o non vogliono, distaccarsi.
L'originalità dello stile non consiste nel proporre qualcosa di mai visto, stravagante o funambolico, ma nella capacità di essere il più possibile in contatto con se stessi e, senza troppi preset, all'unisono col dato di realtà. È la capacità di ricombinare gli assetti, ristrutturare il campo e disporsi in tempo reale all'incontro con l’altro, è fotografare quel che senti e non quel che sai, rinunciare a sovrastrutture e preconcetti, abbandonandosi a felici momenti di dimenticanza. È “perdersi a guardare”, come direbbe il Maestro Jodice. È provare a previsualizzare usando gli occhi del cuore.
* Antonio De Curtis – Totò
Con il termine “previsualizzazione” indichiamo la capacità del fotografo di prefigurare nella sua mente il risultato finale di uno scatto, al netto dello sviluppo e della eventuale postproduzione. Una dote importante, visto che la fotografia – analogica o digitale che sia – attraversa un processo intermedio (tecnologico, meccanico, chimico o elettronico), durante il quale il fotografo non ha quasi alcuna possibilità di intervento, e a cui si limita a dare avvio e una prima direzione.
Si potrebbe pensare che la previsualizzazione avvenga sempre molto tempo prima dello scatto, magari al momento uscire di casa per fotografare. Per molti, in effetti, la fotografia si riconduce alla realizzazione il più fedele possibile di un'idea già ben strutturata nella propria mente. Una concezione attiva del fotografare, totalmente dipendente dall'intenzione dell'autore.
Non funziona sempre così.
Per me, realizzare una fotografia è qualcosa di assai meno precostituito. Una fotografia è frutto dell'effetto combinato di una predisposizione d'animo, solo in parte consapevole, dello strumento in uso e dell'incontro con un dato di realtà. Ciascuno di questi elementi impone una propria “volontà”. In questa logica, la previsualizzazione non è solo una capacità prefigurativa del risultato finale (immaginare i passaggi tecnici attraverso i quali si possa arrivare all'esito desiderato, adattando all'uopo i parametri di scatto), previsualizzare è interrogare la materia, entrare con essa in un dialogo silente e profondo. Come dico spesso, gli oggetti, se li guardiamo a lungo, con intenzione, dopo un poco ci parlano. È in quel momento che prende origine la fotografia, è a quel punto che possiamo iniziare a “vederla”. Non come frutto di un proposito esplicito, ma come esito dinamico di un confronto, di una suggestione, di una negoziazione emotiva tra fotografo e soggetto, mediata dalla fotocamera. Frutto di un sogno, potremmo dire, non come raffigurazione di un sogno precedentemente avvenuto: penso al fotografare come in se stesso sognare.
Previsualizzare è realizzare una sintesi tra più elementi: preconcezione, perturbazione emotiva, condizioni ambientali, soggetto, dotazione tecnica, caso. A questi va aggiunto lo stile personale.
Lo stile non è una coazione, un vezzo, un tic o, peggio, una furberia del marketing. Lo stile è la sintonia profonda che ci permette di meglio interpretare le nostre istanze emozionali in continua evoluzione. L'affinamento dello stile personale presuppone studio, fatica, sofferenza, introspezione. Se lo stile segue unicamente le leggi del compiacimento o del gradimento formale, esso non potrà mai essere al servizio della capacità espressiva e trasfigurativa dell'autore, ma si ridurrà a un mero processo emulativo ed autocelebrativo. Fotografare diventa copiare se stessi: una fredda e vuota stereotipia. Come capita a certi autori, che ripetono pavlovianamente sempre la stessa foto, quell'unico pattern che ha dato loro riconoscibilità, gratificazione e successo, e dal quale non sanno, o non vogliono, distaccarsi.
L'originalità dello stile non consiste nel proporre qualcosa di mai visto, stravagante o funambolico, ma nella capacità di essere il più possibile in contatto con se stessi e, senza troppi preset, all'unisono col dato di realtà. È la capacità di ricombinare gli assetti, ristrutturare il campo e disporsi in tempo reale all'incontro con l’altro, è fotografare quel che senti e non quel che sai, rinunciare a sovrastrutture e preconcetti, abbandonandosi a felici momenti di dimenticanza. È “perdersi a guardare”, come direbbe il Maestro Jodice. È provare a previsualizzare usando gli occhi del cuore.
* Antonio De Curtis – Totò