Che vi hanno fatto le emozioni?
Inviato: mer mag 01, 2019 9:14 am
Nel variegato mondo della fotografia si sta diffondendo una forma di idiosincrasia per le emozioni. O, meglio, per quei fotografi che della capacità di emozionare fanno la cifra del proprio manifesto. Una sorta di “dagli all'autore” mirato a preservare la purezza della Fotografia dalla gramigna dell’impressionismo, o in generale - apriti cielo! – dell’Arte.
I sostenitori di questa crociata ritengono che la deriva artistica della fotografia sia una aberrazione imposta dalla venalità dei galleristi, e la ricerca delle emozioni null'altro che una svenevolezza ottocentesca, o una furberia tesa ad ammantare di significati mistici opere di per sé vuote, prive di alcuna valenza testimoniale. Perché questa è l'unica funzione riconosciuta alla fotografia, aiutare a capire come funziona il mondo e raccontarlo, senza cedimenti alla bellezza, ai sentimenti o a vacue millanterie concettuali.
Alla pari del termine artista, viene ostracizzato anche quello di autore, perché non c'è alcuna realtà da creare, secondo questi amici. Dimentichi, tuttavia, che autore etimologicamente significa promotore, “colui che fa crescere”, e non “colui che crea”.
Confesso di sentirmi coinvolto in questa caccia alle streghe, visto che da tempo dico e scrivo di considerare la capacità di emozionare il parametro più importante di una buona fotografia, insieme a un altro, più prosaico, che è il desiderio di acquistarla (i complimenti sono sospettabili di mera compiacenza, se non accompagnati da una concreta pulsione di possesso).
Afferma Michele Smargiassi che fotografo è “chiunque riservi alla fotografia un posto importante nella propria vita”, a prescindere se ne faccia una professione o un hobby. Sono d'accordo con lui.
E però, se è chiaro il motivo che spinge un professionista a pensare con continuità all'attività che gli dà da vivere, più difficile è capire cosa motivi il semplice appassionato.
Feticismo, senz’altro (il fotografo è sempre anche un appassionato di attrezzature, il cui possesso e utilizzo sublima una quantità di pulsioni che il dott. Freud saprebbe certamente elencare). Una gratificazione legata alla speciale captazione a distanza con la quale il fotografo si appropria delle immagini e delle vite altrui, la perversione con la quale egli gioca a relazionarsi col mondo senza mai toccarlo, certo. Aggiungiamo pure lo spirito di emulazione, che sostiene la gran parte dei fotoamatori (il nefasto “vorrei averla fatta io”, germe letale di ogni aspirazione della fotografia ad avere un mercato collezionistico). Oltre questo, però, dobbiamo supporre che quest'hobby assecondi altri istinti, correlati al potenziale rappresentativo della fotografia e al nostro bisogno di dare espressione a istanze altrimenti silenti, che divengono rintracciabili solo attraverso i derivati narrativi legati al gioco, al sogno, all’arte.
La rappresentazione è una modalità trasformativa e conoscitiva; non coincide col raccontare (inteso nella sua forma narrativa verbale), ed è l’opposto di riprodurre. Rappresentazione e conoscenza sono legate da un rapporto non causale, ma sinergico e sincronico: l'una e l'altra procedono di pari passo e si alimentano a vicenda. Il nostro bisogno di fotografare nasce da un’esigenza epistemofilica, e dal bisogno di liberarci, rappresentandolo, dell’inelaborato che ci intasa la mente.
Quel che possiamo rappresentare (e conoscere) in fotografia è il combinato di una preconcezione e di un incontro, mediato dall'apparecchio. Non possiamo conoscere nulla che non sia già iscritto nella nostra mente (mnemonica, sensoriale, percettiva), e non rientri all’interno della predisposizione strutturale dell'apparecchio in uso. La rappresentazione è un processo trasformativo che attraversa i territori della curiosità, dello stupore, dell’allucinazione, senza i quali non c’è vera conoscenza, ma solo descrizione, raffigurazione, duplicazione, copia.
Qual è l'agente che rende possibile questa capacità trasformativa, se non l'emozione?
L'emozione non è una smanceria romantica, come sembrano suggerire quegli amici. È un filtro, un reattivo clinico, l'interfaccia che ci permette di contattare e comprendere profondamente l'esperienza che stiamo vivendo in un dato momento. Sia essa “esterna” o “interna”, cosciente o inconscia.
I nemici dell'emozione oppongono ad essa la funzione di conoscenza e narrazione del mondo, vera missione della fotografia, senza tuttavia considerare che è proprio l'emozione lo strumento di cui noi umani siamo dotati per conoscere e interpretare il mondo. Il modo più fine ed efficace di farne esperienza, e di condividerla.
A meno che non scambiamo per conoscenza l'aspetto retinico, il visibile, che però è solo parvenza, traccia di superficie, indizio certo importante, ma insufficiente per penetrare i significati profondi dell'esperienza.
Privi dell'emozione, cosa resterebbe di tante pietre miliari dell'immaginario fotografico? Cosa sarebbe dei ragazzini di “Rue Mouffetard” e ”Arena di Valencia” immortalati dal maestro Henri Cartier Bresson? Un monello che porta due bottiglie di vino, un altro che si imbuca in una corrida? Bastano le informazioni per fare grande una fotografia? È l'emozione che determina il potere identificatorio di quelle immagini, fa sì che esse acquistino un senso universale e occupino un posto permanente nel nostro immaginario, perché attraverso quelle emozioni ri-conosciamo parti di noi all’interno di una agibile cornice di senso.
Che tutto questo sia determinato da una serie di parametri assai ben strutturati, fa parte della semiologia, della psicologia della percezione e di un bagaglio di competenze, teoriche ma anche artigianali, che il fotografo – e non solo il critico – è giusto che possieda e coltivi.
Maneggiare le emozioni non può mai rispondere a una programmazione compiuta e precisa, ma non è neppure un fatto così naïf, come alcuni ritengono.
Bene fanno i critici a stigmatizzare l'eccesso di spontaneismo e a sostenere la necessità di buone basi tecniche, di studio e confronto continui, di quel pensare con assiduità alla fotografia senza il quale non si è fotografi ma “fotografanti” (ancora Smargiassi). Ma questa esigenza non può essere contrapposta, per quanto ho provato a spiegare, all’emozione in quanto tale. Perché è proprio l'emozione la base fondante di qualunque atto trasformativo e conoscitivo, il prerequisito di una fruizione adulta della fotografia, che sappia emanciparsi dalla sterile ritualità del like.
Henri Cartier Bresson "Rue Mouffetard", 1954
I sostenitori di questa crociata ritengono che la deriva artistica della fotografia sia una aberrazione imposta dalla venalità dei galleristi, e la ricerca delle emozioni null'altro che una svenevolezza ottocentesca, o una furberia tesa ad ammantare di significati mistici opere di per sé vuote, prive di alcuna valenza testimoniale. Perché questa è l'unica funzione riconosciuta alla fotografia, aiutare a capire come funziona il mondo e raccontarlo, senza cedimenti alla bellezza, ai sentimenti o a vacue millanterie concettuali.
Alla pari del termine artista, viene ostracizzato anche quello di autore, perché non c'è alcuna realtà da creare, secondo questi amici. Dimentichi, tuttavia, che autore etimologicamente significa promotore, “colui che fa crescere”, e non “colui che crea”.
Confesso di sentirmi coinvolto in questa caccia alle streghe, visto che da tempo dico e scrivo di considerare la capacità di emozionare il parametro più importante di una buona fotografia, insieme a un altro, più prosaico, che è il desiderio di acquistarla (i complimenti sono sospettabili di mera compiacenza, se non accompagnati da una concreta pulsione di possesso).
Afferma Michele Smargiassi che fotografo è “chiunque riservi alla fotografia un posto importante nella propria vita”, a prescindere se ne faccia una professione o un hobby. Sono d'accordo con lui.
E però, se è chiaro il motivo che spinge un professionista a pensare con continuità all'attività che gli dà da vivere, più difficile è capire cosa motivi il semplice appassionato.
Feticismo, senz’altro (il fotografo è sempre anche un appassionato di attrezzature, il cui possesso e utilizzo sublima una quantità di pulsioni che il dott. Freud saprebbe certamente elencare). Una gratificazione legata alla speciale captazione a distanza con la quale il fotografo si appropria delle immagini e delle vite altrui, la perversione con la quale egli gioca a relazionarsi col mondo senza mai toccarlo, certo. Aggiungiamo pure lo spirito di emulazione, che sostiene la gran parte dei fotoamatori (il nefasto “vorrei averla fatta io”, germe letale di ogni aspirazione della fotografia ad avere un mercato collezionistico). Oltre questo, però, dobbiamo supporre che quest'hobby assecondi altri istinti, correlati al potenziale rappresentativo della fotografia e al nostro bisogno di dare espressione a istanze altrimenti silenti, che divengono rintracciabili solo attraverso i derivati narrativi legati al gioco, al sogno, all’arte.
La rappresentazione è una modalità trasformativa e conoscitiva; non coincide col raccontare (inteso nella sua forma narrativa verbale), ed è l’opposto di riprodurre. Rappresentazione e conoscenza sono legate da un rapporto non causale, ma sinergico e sincronico: l'una e l'altra procedono di pari passo e si alimentano a vicenda. Il nostro bisogno di fotografare nasce da un’esigenza epistemofilica, e dal bisogno di liberarci, rappresentandolo, dell’inelaborato che ci intasa la mente.
Quel che possiamo rappresentare (e conoscere) in fotografia è il combinato di una preconcezione e di un incontro, mediato dall'apparecchio. Non possiamo conoscere nulla che non sia già iscritto nella nostra mente (mnemonica, sensoriale, percettiva), e non rientri all’interno della predisposizione strutturale dell'apparecchio in uso. La rappresentazione è un processo trasformativo che attraversa i territori della curiosità, dello stupore, dell’allucinazione, senza i quali non c’è vera conoscenza, ma solo descrizione, raffigurazione, duplicazione, copia.
Qual è l'agente che rende possibile questa capacità trasformativa, se non l'emozione?
L'emozione non è una smanceria romantica, come sembrano suggerire quegli amici. È un filtro, un reattivo clinico, l'interfaccia che ci permette di contattare e comprendere profondamente l'esperienza che stiamo vivendo in un dato momento. Sia essa “esterna” o “interna”, cosciente o inconscia.
I nemici dell'emozione oppongono ad essa la funzione di conoscenza e narrazione del mondo, vera missione della fotografia, senza tuttavia considerare che è proprio l'emozione lo strumento di cui noi umani siamo dotati per conoscere e interpretare il mondo. Il modo più fine ed efficace di farne esperienza, e di condividerla.
A meno che non scambiamo per conoscenza l'aspetto retinico, il visibile, che però è solo parvenza, traccia di superficie, indizio certo importante, ma insufficiente per penetrare i significati profondi dell'esperienza.
Privi dell'emozione, cosa resterebbe di tante pietre miliari dell'immaginario fotografico? Cosa sarebbe dei ragazzini di “Rue Mouffetard” e ”Arena di Valencia” immortalati dal maestro Henri Cartier Bresson? Un monello che porta due bottiglie di vino, un altro che si imbuca in una corrida? Bastano le informazioni per fare grande una fotografia? È l'emozione che determina il potere identificatorio di quelle immagini, fa sì che esse acquistino un senso universale e occupino un posto permanente nel nostro immaginario, perché attraverso quelle emozioni ri-conosciamo parti di noi all’interno di una agibile cornice di senso.
Che tutto questo sia determinato da una serie di parametri assai ben strutturati, fa parte della semiologia, della psicologia della percezione e di un bagaglio di competenze, teoriche ma anche artigianali, che il fotografo – e non solo il critico – è giusto che possieda e coltivi.
Maneggiare le emozioni non può mai rispondere a una programmazione compiuta e precisa, ma non è neppure un fatto così naïf, come alcuni ritengono.
Bene fanno i critici a stigmatizzare l'eccesso di spontaneismo e a sostenere la necessità di buone basi tecniche, di studio e confronto continui, di quel pensare con assiduità alla fotografia senza il quale non si è fotografi ma “fotografanti” (ancora Smargiassi). Ma questa esigenza non può essere contrapposta, per quanto ho provato a spiegare, all’emozione in quanto tale. Perché è proprio l'emozione la base fondante di qualunque atto trasformativo e conoscitivo, il prerequisito di una fruizione adulta della fotografia, che sappia emanciparsi dalla sterile ritualità del like.
Henri Cartier Bresson "Rue Mouffetard", 1954