Sul "selfie"
Inviato: mar ago 21, 2018 11:04 am
La vicenda dell'autoritratto col politico ai funerali di Genova sta diventando l’ennesimo pretesto per mettere sotto accusa il “selfie”, fenomeno tanto diffuso quanto vituperato.
“L’inferno è l’altro” ha detto Sartre.
"Il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da tempo", ha scritto Freud.
E dunque, ci angoscia di più ciò che ci è prossimo o ciò che ci è distante? Entrambi, forse, tanto più quando intuiamo lo sconosciuto tra quanto ci è più familiare, e, per esorcizzarlo, abbiamo bisogno di rappresentarlo.
Il selfie deve la sua deflagrante diffusione alla nascita di internet e dei social, ma il fenomeno è ben precedente. L’autoritratto ha origini antichissime, se pensiamo che forse persino le primitive incisioni rupestri rispondono alla stessa esigenza di rappresentazione, di testimonianza della propria esistenza.
Talvolta questo bisogno sfocia nella egolatria, un culto esasperato del Sé, e questo è il maggiore pericolo insito nella facilità di divulgazione immediata e dilagante che i moderni mezzi ci offrono. Ma il selfie ha vocazioni assai più benigne.
L’immagine di sé costituisce un doppio, come il riflesso allo specchio, ed è in grado di promuovere processi di separazione e differenziazione. Il doppio, nell’immagine riflessa allo specchio, è per Lacan il fondamento delle radici dell’Io.
Il doppio aiuta i processi di individuazione, esigenza primaria negli adolescenti, in cui il tema dell’identità è centrale e in impetuosa evoluzione.
Ma l’immagine del doppio può anche diventare più essenziale di colui che la produce e costituisce, per la sua immaterialità corporea, uno scudo immaginario contro la morte, difesa dall’annientamento. In questo senso, la ricorsività del selfie può assumere aspetti ossessivi e maniacali, come fu all’uscita di “Titanic”, quando frotte di ragazzine continuavano a rivedere il film nell’illusione, vana e vagamente delirante, di vedere per una volta sopravvivere il loro idolo Leonardo Di Caprio.
La condivisione del selfie ha a che fare col narcisismo, dunque, ma non come lo si intende comunemente. La vanità del muso “a culo di gallina” si accompagna a una funzione di testimonianza di esistenza in vita che il selfista cerca in sé e negli altri. Il narcisismo qui ha a che fare col bisogno di presentificarsi, prima ancora che col bisogno di piacersi, sia pur all’interno di un ideale narcisistico. Le sue origini vanno ricercate nei primi momenti di contatto visuale tra la madre e il bambino. Il bambino piccolo costruisce la propria identità rispecchiandosi negli occhi della madre, in essi il piccolo non vede direttamente se stesso ma ritrova ciò che la madre pensa – e desidera - che egli sia. Il bambino ritrova negli occhi materni quel che egli è ma ancora non sa di essere. Allo stesso modo, il fotografo ritrova nei propri soggetti, ancor più quando il soggetto è egli stesso, cose di sé che egli intuisce ma ancora non conosce.
In questo, il selfie non è dissimile dal vecchio “caro diario”, la rappresentazione e la narrazione di sé delimita i propri confini e modella il rapporto con gli altri. Non vi è nulla di patologico, se non quando diventasse una pratica compulsiva.
Trovo che alcuni selfie, nonostante il diffuso pregiudizio, siano interessanti anche sul piano strettamente fotografico.
Assoluzione piena, quindi? Non proprio.
Siamo partiti dai fatti di Genova. Sorvolando sulle responsabilità del politico che vi si è prestato, trovo ben più censurabile il comportamento di chi ha chiesto e ottenuto quella foto. Ciò che critico non è il desiderio di ritrarsi col proprio beniamino, ma la totale mancanza di considerazione del contesto.
Ecco, penso che i limiti del gesto, di per sé innocentemente narcisistico, siano quelli del buon gusto. Il selfie non è censurabile in sé, ma lo è quando diventa irrispettoso del contesto e delle situazioni. O quando diventa intrusivo, petulante, inutilmente ostensivo.
Eccessi perdonabili nel caso degli adolescenti, già descritti in una dolente ricerca di se stessi. Assai meno nei loro genitori che, tra l’altro, dei selfie sembrano godere più dei ragazzini, e spesso abusano di Facebook e degli altri social assai più dei loro figli.
“L’inferno è l’altro” ha detto Sartre.
"Il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da tempo", ha scritto Freud.
E dunque, ci angoscia di più ciò che ci è prossimo o ciò che ci è distante? Entrambi, forse, tanto più quando intuiamo lo sconosciuto tra quanto ci è più familiare, e, per esorcizzarlo, abbiamo bisogno di rappresentarlo.
Il selfie deve la sua deflagrante diffusione alla nascita di internet e dei social, ma il fenomeno è ben precedente. L’autoritratto ha origini antichissime, se pensiamo che forse persino le primitive incisioni rupestri rispondono alla stessa esigenza di rappresentazione, di testimonianza della propria esistenza.
Talvolta questo bisogno sfocia nella egolatria, un culto esasperato del Sé, e questo è il maggiore pericolo insito nella facilità di divulgazione immediata e dilagante che i moderni mezzi ci offrono. Ma il selfie ha vocazioni assai più benigne.
L’immagine di sé costituisce un doppio, come il riflesso allo specchio, ed è in grado di promuovere processi di separazione e differenziazione. Il doppio, nell’immagine riflessa allo specchio, è per Lacan il fondamento delle radici dell’Io.
Il doppio aiuta i processi di individuazione, esigenza primaria negli adolescenti, in cui il tema dell’identità è centrale e in impetuosa evoluzione.
Ma l’immagine del doppio può anche diventare più essenziale di colui che la produce e costituisce, per la sua immaterialità corporea, uno scudo immaginario contro la morte, difesa dall’annientamento. In questo senso, la ricorsività del selfie può assumere aspetti ossessivi e maniacali, come fu all’uscita di “Titanic”, quando frotte di ragazzine continuavano a rivedere il film nell’illusione, vana e vagamente delirante, di vedere per una volta sopravvivere il loro idolo Leonardo Di Caprio.
La condivisione del selfie ha a che fare col narcisismo, dunque, ma non come lo si intende comunemente. La vanità del muso “a culo di gallina” si accompagna a una funzione di testimonianza di esistenza in vita che il selfista cerca in sé e negli altri. Il narcisismo qui ha a che fare col bisogno di presentificarsi, prima ancora che col bisogno di piacersi, sia pur all’interno di un ideale narcisistico. Le sue origini vanno ricercate nei primi momenti di contatto visuale tra la madre e il bambino. Il bambino piccolo costruisce la propria identità rispecchiandosi negli occhi della madre, in essi il piccolo non vede direttamente se stesso ma ritrova ciò che la madre pensa – e desidera - che egli sia. Il bambino ritrova negli occhi materni quel che egli è ma ancora non sa di essere. Allo stesso modo, il fotografo ritrova nei propri soggetti, ancor più quando il soggetto è egli stesso, cose di sé che egli intuisce ma ancora non conosce.
In questo, il selfie non è dissimile dal vecchio “caro diario”, la rappresentazione e la narrazione di sé delimita i propri confini e modella il rapporto con gli altri. Non vi è nulla di patologico, se non quando diventasse una pratica compulsiva.
Trovo che alcuni selfie, nonostante il diffuso pregiudizio, siano interessanti anche sul piano strettamente fotografico.
Assoluzione piena, quindi? Non proprio.
Siamo partiti dai fatti di Genova. Sorvolando sulle responsabilità del politico che vi si è prestato, trovo ben più censurabile il comportamento di chi ha chiesto e ottenuto quella foto. Ciò che critico non è il desiderio di ritrarsi col proprio beniamino, ma la totale mancanza di considerazione del contesto.
Ecco, penso che i limiti del gesto, di per sé innocentemente narcisistico, siano quelli del buon gusto. Il selfie non è censurabile in sé, ma lo è quando diventa irrispettoso del contesto e delle situazioni. O quando diventa intrusivo, petulante, inutilmente ostensivo.
Eccessi perdonabili nel caso degli adolescenti, già descritti in una dolente ricerca di se stessi. Assai meno nei loro genitori che, tra l’altro, dei selfie sembrano godere più dei ragazzini, e spesso abusano di Facebook e degli altri social assai più dei loro figli.