Franco Carlisi - "Altari di sassi"
Inviato: mar mar 19, 2019 11:09 pm
Franco Carlisi - “Altari di sassi”, 2001
Ho conosciuto Franco Carlisi ben prima che uscisse il fortunato “Iavaivoi”, e l'ancor più fortunato “Il valzer di un giorno”. Nel 2001, durante le mie scorribande tra le novità editoriali, mi imbattei in questo piccolo volume, di un bianconero intenso, profondo, violento persino, fin dalla copertina. “Altari di sassi” era il titolo, e questo fu l’argomento definitivo che rese necessario il mio acquisto.
Da allora, Franco Carlisi è entrato di diritto nel piccolo Olimpo dei miei autori preferiti. Posto che mantiene tutt’ora, dopo tanti anni, e dopo che ho avuto il privilegio di diventargli amico.
Nella quarta di copertina, in una toccante dedica al padre, Franco scrive:
“Ora che il sentimento dell’assenza esiste sono tornato a cercare i miei sassi (…) sguardi sospesi sui silenzi dell’esistenza, sogni sognati anche da altri. Fantasmi di una civiltà interiore di un’improbabile intimità condivisa (…)”.
Il libro parla di ritrovamenti, una ricerca sofferta di radici identitarie d'acchito ostiche, estranee, rese agibili grazie al potenziale oniropoietico della fotografia, fino a poterle riconoscere come familiari.
La foto che ho scelto di commentare non è contenuta nel libro, ma appartiene alla stessa linea di ricerca, la cui prosecuzione, ci auguriamo, approderà in futuro ad una nuova pubblicazione.
Una fotografia semplice, basica, solo una mano e un corpo, di bimbo si direbbe.
L'immagine poggia formalmente sulla relazione fuoco/fuori fuoco, e si struttura graficamente su una direttrice longitudinale contrappuntata da cavità scure (l'ombelico, l'addome, la bocca), culminante nella macchia di luce sullo sfondo, uno spiritello irriverente che sembra parodiare la mimica del volto. Una linea che il gesto perpendicolare della mano interrompe di netto, affondando il dito nella carne molle. Una cesura forte, a configurare una dialettica maschile/femminile ad un tempo tenera, brutale e sensuale.
Dicevo del corpo di bambino, ma questa è una lettura soggettiva. La foto in realtà dice e non dice, e si presta a molteplici interpretazioni, frutto diretto di personalissime proiezioni e antiche reminiscenze: i nostri altari di sassi.
La mia mente, al cospetto della foto, vola, planando dolcemente sul lettino da visita del mio medico di famiglia, il compianto dott. Cartesio (non il filosofo, non sono così vecchio! I miei compaesani sanno di chi parlo). Le sue dita sapienti spingono sul mio pancino glabro e molle, a sondare eventuali anomali ispessimenti, a provocare mirate sensazioni di dolore, e a produrre inevitabilmente le mie scomposte reazioni di solletico, che, per via dei convulsi sussulti addominali, mandano a ramengo l'ispezione diagnostica, suscitando l'ira del dottore, che puntualmente mi apostrofa con aggettivi ogni volta più fantasiosi, dopo i quali ridiamo tutti, compresi i miei genitori, adesso sollevati. Perché significa che lui ha già capito, e va tutto bene. Il resto è teatro. E affetto vero.
Ecco la self disclosure, ecco gli altari, le memorie intime che diventano nostalgia condivisa.
Quello della foto, nella realtà, potrebbe essere un corpo non così giovane, magari un corpo dolente, perturbato o eccitato. La mano potrebbe non essere così amorevole e sapiente come quella dei miei ricordi.
È la peculiarità della buona fotografia, partire da un dato reale e espandere i suoi significati possibili, plasmandoli a misura del fruitore, in una relazione certo privilegiata con le intenzioni dell'autore, ma in un assetto di sostanziale autonomia.
Succede quando una fotografia è adulta, consapevole, non gelosa della propria genesi, libera di camminare da sola per diventare patrimonio di tutti coloro che la osservano. “Pietra su pietra, segreto su segreto, sino all'apologia della fantasia”.