Henri Cartier Bresson – Arena di Valencia
Inviato: mar nov 27, 2018 6:24 pm
Henri Cartier Bresson – Arena di Valencia, 1933
“Camminavo tutto il giorno sempre all'erta, cercando nelle strade l'occasione di fare foto dal vivo, come flagranti reati”.
In questa frase Cartier Bresson rivela il suo segreto, il suo modus operandi tanto ammirato ed emulato. Il famoso “attimo decisivo” è la capacità di fissare, come una sentenza inappellabile, l'immagine che riassume in sé una porzione di verità colta in flagrante, la canna fumante davanti alla quale essa diventa incontrovertibile e inconfutabile. Per ottenere questo occorre passeggiare - il suffit de flâner - apparentemente senza meta e senza scopo, in realtà col preciso intento di trovare combinazioni gestaltiche di significati e di forme in grado di costituire un tassello di conoscenza nella mente del fruitore e, prima ancora, dello stesso fotografo. Che questo tassello faccia parte di una narrazione più ampia o precostituita non è un problema che debba porsi il fotografo flâneur. Egli scopre il mondo, rivelandolo a piccole porzioni, senza apparente coscienza del quadro di massima. Sta ad altri, i fruitori, i critici, gli storici, ricavarne eventuale testimonianza di un'epoca e di un luogo.
La foto che ho scelto di commentare è composta di due parti, divise verticalmente da un pannello recante il numero 7. Le due parti della scena sembrano apparentemente scollegate, non fosse per un certo senso di apprensione guardinga che accomuna i due protagonisti, così che l'uno sembra voglia sfuggire di soppiatto alla vigilanza sospettosa dell'altro. Il titolo ci dà conto del dove, e ci informa che probabilmente stiamo assistendo al seguente racconto: un giovanotto tenta di intrufolarsi illegalmente dentro un'arena durante uno spettacolo, sfuggendo al controllo del guardiano. Ma è solo una delle narrazioni possibili, e nemmeno forse la più probabile, stante che i due attori sembrano collocati in piani molto sfalsati, come ci informa la loro differente messa a fuoco. Potrebbe essere solo un'interpretazione soggettiva, dunque, ad alto valore proiettivo. E' questo l'attimo decisivo? Un fotogramma che rivela una scena sul cui vero svolgimento non si ha alcuna certezza?
Questa fotografia contiene in realtà molto di più. E qui mi appoggio agli scritti di Floch¹ e Mangano² per introdurre il ruolo fondamentale giocato dalla forma.
Se ci sganciamo dagli aspetti strettamente contenutistici – cosa che in realtà facciamo spontaneamente, ma di cui raramente siamo consapevoli -, notiamo alcuni elementi significativi. Intanto l'inarcatura della schiena del ragazzo, che sembra proseguire il gambo del numero 7, collegando le due parti del fotogramma assai meglio di quanto lo facciano le caratteristiche estrinseche dei due soggetti. Poi, la ridondanza di cerchi e di rettangoli (la feritoia da cui spunta il guardiano, le altre finestrelle sul portone spinto dal ragazzo, e poi il cerchio perfetto della lente dell'uomo in primo piano, completamente sbiancato da un riflesso di luce, e i cerchi concentrici intorno al numero sette). Figure geometriche che si richiamano tra loro come anafore, “rime visive” (Mangano). E di che figure si tratta, se non quelle che caratterizzano simbolicamente proprio l'atto del fotografare? Il cerchio e il rettangolo: l'obiettivo e il fotogramma!
Ecco allora che il “flagrante reato”, quello che l'attimo decisivo di Henri Cartier Bresson congela, è proprio la brama del fotografo, colto nel gesto di spiare il mondo, intrufolandosi di nascosto nelle fessure, sfuggendo agli occhi vigili di un guardiano arcigno (Super-Io) che invece ci intimerebbe di chiuderli gli occhi, e non entrare in quel luogo delle meraviglie che l'istinto ci promette e che la civiltà ci nega.
Eccolo, visto nella sua interezza, questo momento colto in una passeggiata a Valencia, nei pressi dell'Arena: il fotografo scorge se stesso e lo racconta. Un fotografo cerca sempre se stesso, anche se quasi sempre, per pudore o per prudenza, lo fa nelle storie degli altri. Non che ne sia consapevole al momento dello scatto, ma è proprio così che la fotografia diventa strumento di conoscenza di sé.
“Fotografare è riconoscere, contemporaneamente e in una frazione di secondo, un fatto e l'organizzazione rigorosa delle forme percepite che esprimono quel fatto”, dice Cartier Bresson.
Come a dire che la sostanza è solo metà della faccenda; importante quanto mai, senza forma non c'è fotografia.
¹ Floch J.M., "Forme dell'impronta"(1986)
² Mangano D. "Che cos'è la semiotica della fotografia" (2018)