Quando "comanda" la fotocamera
- Carlo Riggi
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Quando "comanda" la fotocamera
Prendo spunto dalle considerazioni di Pier Maria, il quale, commentando la mia foto del faro, rilevava il peso del mezzo nella costruzione di quella immagine, fino quasi a determinarla.
Si tratta di un'osservazione molto pertinente. Io però non penso alla fotocamera come uno strumento al totale servizio della volontà precostituita del fotografo. Penso piuttosto a dinamiche di "cooperazione", in cui autore e mezzo diventano tutt'uno nell'atto di cogliere elementi che, con altri mezzi e altri stati d'animo, non si sarebbero magari neppure visti.
Consapevole che si tratti solo di un mio punto di vista, riporto qui di seguito il paragrafo del mio libricino "Dilemmi fotografici" dedicato all'amata Holga, da cui credo si evinca bene questo mio modo di intendere la fotografia.
Ogni contributo, di parole o di immagini, è ben accetto.
---
La peculiarità della fotografia è di saper indagare gli interstizi della realtà, rivelandone porzioni altrimenti "invisibili" o inconoscibili. Svelare l’inconscio non è tanto mettere in mostra contenuti quanto rendere consapevoli di un mistero. In una fotografia è importante ciò che è presente ma anche ciò che non si vede, giacché l’immagine completamente satura, producendo solo un feticcio di conoscenza, non lascia spazio all’immaginazione e non muove il pensiero.
Nella fotografia, diversamente da altre arti figurative, una quota d’insaturo si impone per effetto di una libera “determinazione” dell’apparecchio fotografico, quel che Franco Vaccari chiamava inconscio tecnologico: un’autonoma capacità dello strumento di organizzare l’immagine in forme simboliche, indipendentemente dall’intervento del soggetto.
La fotografia nasce al collimare di una “preconcezione” con un evento. Tra l’idea e il fatto esterno c’è un insieme di fattori propri del mezzo che influenza il risultato finale facendo emergere dalla fotografia elementi imprevisti, “casuali”, eppure carichi di significanti capaci di avviare derive di senso. La fotografia è dunque in parte indipendente dalla volontà dell’autore e possiede una propria autonoma valenza conoscitiva. Ogni passaggio del processo fotografico aggiunge una quota di imprevedibilità, e quindi una opportunità di espansione di significati.
Ci sono apparecchi che sembrano fatti apposta per esaltare tali aspetti di anarchia creativa, e in cui l’inconscio proprio del mezzo risulta determinante. La Holga è uno di essi.
Fotogrammi accidentati, sfuocati, sottoesposti, margini di imperfezione in cui si annidano colonie di segni. I risultati di questo “giocattolo” di plastica appaiono spiazzanti e aleatori, eppure evocativi di istanze interiori familiari ancorché ignote. L’autore sente l’immagine finale appartenergli intimamente, sollecitare aspetti che egli non può ancora definire ma di cui adesso può avere consapevolezza. Consapevolezza di un mistero, quanto meno.
Quelle della Holga sono immagini senza tempo, fatte della stessa materia dei ricordi e dei sogni. Come i sogni, capaci di mostrare di noi più di quanto la più nitida delle immagini sappia fare. Perché la verità, intesa come “cosa in sé”, è inconoscibile se non come derivato narrativo, come trasfigurazione artistica o come domanda, che è poi la forma più pura di conoscenza.
La Holga ci pone sempre una domanda, e si guarda bene dal saturarla con risposte scontate.
Si tratta di un'osservazione molto pertinente. Io però non penso alla fotocamera come uno strumento al totale servizio della volontà precostituita del fotografo. Penso piuttosto a dinamiche di "cooperazione", in cui autore e mezzo diventano tutt'uno nell'atto di cogliere elementi che, con altri mezzi e altri stati d'animo, non si sarebbero magari neppure visti.
Consapevole che si tratti solo di un mio punto di vista, riporto qui di seguito il paragrafo del mio libricino "Dilemmi fotografici" dedicato all'amata Holga, da cui credo si evinca bene questo mio modo di intendere la fotografia.
Ogni contributo, di parole o di immagini, è ben accetto.
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La peculiarità della fotografia è di saper indagare gli interstizi della realtà, rivelandone porzioni altrimenti "invisibili" o inconoscibili. Svelare l’inconscio non è tanto mettere in mostra contenuti quanto rendere consapevoli di un mistero. In una fotografia è importante ciò che è presente ma anche ciò che non si vede, giacché l’immagine completamente satura, producendo solo un feticcio di conoscenza, non lascia spazio all’immaginazione e non muove il pensiero.
Nella fotografia, diversamente da altre arti figurative, una quota d’insaturo si impone per effetto di una libera “determinazione” dell’apparecchio fotografico, quel che Franco Vaccari chiamava inconscio tecnologico: un’autonoma capacità dello strumento di organizzare l’immagine in forme simboliche, indipendentemente dall’intervento del soggetto.
La fotografia nasce al collimare di una “preconcezione” con un evento. Tra l’idea e il fatto esterno c’è un insieme di fattori propri del mezzo che influenza il risultato finale facendo emergere dalla fotografia elementi imprevisti, “casuali”, eppure carichi di significanti capaci di avviare derive di senso. La fotografia è dunque in parte indipendente dalla volontà dell’autore e possiede una propria autonoma valenza conoscitiva. Ogni passaggio del processo fotografico aggiunge una quota di imprevedibilità, e quindi una opportunità di espansione di significati.
Ci sono apparecchi che sembrano fatti apposta per esaltare tali aspetti di anarchia creativa, e in cui l’inconscio proprio del mezzo risulta determinante. La Holga è uno di essi.
Fotogrammi accidentati, sfuocati, sottoesposti, margini di imperfezione in cui si annidano colonie di segni. I risultati di questo “giocattolo” di plastica appaiono spiazzanti e aleatori, eppure evocativi di istanze interiori familiari ancorché ignote. L’autore sente l’immagine finale appartenergli intimamente, sollecitare aspetti che egli non può ancora definire ma di cui adesso può avere consapevolezza. Consapevolezza di un mistero, quanto meno.
Quelle della Holga sono immagini senza tempo, fatte della stessa materia dei ricordi e dei sogni. Come i sogni, capaci di mostrare di noi più di quanto la più nitida delle immagini sappia fare. Perché la verità, intesa come “cosa in sé”, è inconoscibile se non come derivato narrativo, come trasfigurazione artistica o come domanda, che è poi la forma più pura di conoscenza.
La Holga ci pone sempre una domanda, e si guarda bene dal saturarla con risposte scontate.
Ciao
Carlo
Carlo
- MarcoBiancardi
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Re: Quando "comanda" la fotocamera
come sempre, Carlo, le tue considerazioni sono molto profonde e interessanti spunti di riflessione.
Ho senz'altro notato anch'io, per quanto mi rigurada, che il mezzo che utilizzo influenza molto il mio modo di fotografare, il tipo di soggetti che approccio e il come li approccio.
Basti pensare a come ci si avvcini diversamente a un soggetto con una reflex piuttosto che con una telemetro, una compatta o uno smartphone, è molto banale, ma anche come il soggetto, se è una persona, possa porsi in maniera diversa davanti a diversi strumenti fotografici, che egli può percepire come più o meno invasivi o amichevoli o come più o meno "seri".
Poi c'è la diversità del mezzo digitale rispetto alla pellicola, non parlo della resa, ma sempre dell'approccio del fotografo, nel secondo caso di solito più lento e meditato.
Certo il tuo discorso va molto oltre questi tecnicismi e riguarda come lo strumento abbia una sua autonomia espressiva, che va ben al di là dell'esempio del pittore che usi l'olio piuttosto che l'acquarello oppure dello scultore che usi la pietra piuttosto che il bronzo.
Tu parli di una autonomia che secondo me è propria e peculiare della Fotografia rispetto alle altre arti figurative, che se in una prima fase può in parte guidare la mano (e l'occhio) dell'artista (sic), permette poi a posteriori di "vedere" molto di più di quel che il fotografo ritenesse di vedere.
Direi che ciascun diverso strumento fotografico possieda in sé una sua "sintassi espressiva", la chiamerei cosi, che può andare dall'estremo realismo e nitidezza di una lente, agli effetti impressionistici o surreali o morbidamene sognanti di un'altra attrezzatura; una sintassi che permette poi il dialogo tra l'opera e l'osservatore dell'immagine, attraverso una serie infinita di suggestioni emotive e di forma.
Ho senz'altro notato anch'io, per quanto mi rigurada, che il mezzo che utilizzo influenza molto il mio modo di fotografare, il tipo di soggetti che approccio e il come li approccio.
Basti pensare a come ci si avvcini diversamente a un soggetto con una reflex piuttosto che con una telemetro, una compatta o uno smartphone, è molto banale, ma anche come il soggetto, se è una persona, possa porsi in maniera diversa davanti a diversi strumenti fotografici, che egli può percepire come più o meno invasivi o amichevoli o come più o meno "seri".
Poi c'è la diversità del mezzo digitale rispetto alla pellicola, non parlo della resa, ma sempre dell'approccio del fotografo, nel secondo caso di solito più lento e meditato.
Certo il tuo discorso va molto oltre questi tecnicismi e riguarda come lo strumento abbia una sua autonomia espressiva, che va ben al di là dell'esempio del pittore che usi l'olio piuttosto che l'acquarello oppure dello scultore che usi la pietra piuttosto che il bronzo.
Tu parli di una autonomia che secondo me è propria e peculiare della Fotografia rispetto alle altre arti figurative, che se in una prima fase può in parte guidare la mano (e l'occhio) dell'artista (sic), permette poi a posteriori di "vedere" molto di più di quel che il fotografo ritenesse di vedere.
Direi che ciascun diverso strumento fotografico possieda in sé una sua "sintassi espressiva", la chiamerei cosi, che può andare dall'estremo realismo e nitidezza di una lente, agli effetti impressionistici o surreali o morbidamene sognanti di un'altra attrezzatura; una sintassi che permette poi il dialogo tra l'opera e l'osservatore dell'immagine, attraverso una serie infinita di suggestioni emotive e di forma.
- Carlo Riggi
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Re: Quando "comanda" la fotocamera
Ciao Carlo, cerco sinteticamente di chiarire il mio pensiero, figurati che adesso anch'io uso una macchina vecchia, una Bessa 66 che mi fa fare foto seguendo i suoi dettami. Il mio dubbio riguarda un tipo di immagini, specie Polaroid come dicevo, o anche quelle realizzate con il foro stenopeico, che sembrano dare un valore estetico speciale a un qualsiasi soggetto solo per la loro stessa natura, in quei casi mi immagino lo stesso soggetto ripreso con un apparecchio più "normale" e se la figurazione che mi viene in mente pende sul lato della banalità la cosa non mi fa impazzire. Naturalmente penso anch'io che le stagioni fotografiche vadano di pari passi con le macchine fotografiche, nel mio esempio poco tempo fa mi piaceva fotografare i paesaggi milanesi a colori e la Rolleiflex era per me perfetta, o usavo la Ernemann di mio nonno per tempi lunghi in bianco e nero, o precedentemente la Leica a vite per scene diciamo generaliste. Ora saluto e chiudo. Pier Maria
- Carlo Riggi
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Re: Quando "comanda" la fotocamera
Caro Pier Maria, comprendo perfettamente il tuo pensiero, e per buona parte lo condivido. Specie quando sulla fruizione della foto si imponga la sensazione del ricorso all'espediente, mirato a nobilitare un prodotto altrimenti banale.
Quel che non condivido è l'idea di dover immaginare la stessa foto realizzata altrimenti. Ci sono foto che, per me, non sarebbero mai nate "altrimenti". Non le avrei proprio viste! Quella determinata foto è frutto del disposto combinato di quel fotografo, in quel momento, e quella fotocamera.
Ovvio che stiamo parlando di un certo tipo di fotografia, a "priorità emozionale", se mi passi il termine. Foto che possono anche non nascere e non muore nessuno. Però mi è capitato anche di utilizzare il low fi in situazioni di reportage (v. thread "Holga in processione", e devo dire che non ho sentito bisogno di altro, confermandomi che noi fotografi, in fondo, siamo la fotocamera che abbiamo in mano...
Grazie! È un piacere mettere a confronto i nostri (parzialmente) diversi punti di vista.
Quel che non condivido è l'idea di dover immaginare la stessa foto realizzata altrimenti. Ci sono foto che, per me, non sarebbero mai nate "altrimenti". Non le avrei proprio viste! Quella determinata foto è frutto del disposto combinato di quel fotografo, in quel momento, e quella fotocamera.
Ovvio che stiamo parlando di un certo tipo di fotografia, a "priorità emozionale", se mi passi il termine. Foto che possono anche non nascere e non muore nessuno. Però mi è capitato anche di utilizzare il low fi in situazioni di reportage (v. thread "Holga in processione", e devo dire che non ho sentito bisogno di altro, confermandomi che noi fotografi, in fondo, siamo la fotocamera che abbiamo in mano...
Grazie! È un piacere mettere a confronto i nostri (parzialmente) diversi punti di vista.
Ciao
Carlo
Carlo
Re: Quando "comanda" la fotocamera
condivido molto questo punto...Carlo Riggi ha scritto: ↑gio feb 15, 2018 12:05 pmIn una fotografia è importante ciò che è presente ma anche ciò che non si vede, giacché l’immagine completamente satura, producendo solo un feticcio di conoscenza, non lascia spazio all’immaginazione e non muove il pensiero.
ho letto considerazioni molto interessanti, personalmente credo sia solo una questione di "scelte"...
sono convinto che il mezzo tecnico piega l' approccio ma la fotocamera non comanda mai, ci sono mezzi più evoluti di altri con diversi parametri che un fotografo imposta per interpretare ciò che ha previsualizzato in mente, (per parametri intendo delle scelte di tempo, diaframma, iso, focale, etc. etc.) e ci sono mezzi che non ti possono far impostare quasi nulla, perlomeno molto meno, come la holga o le polaroid o cross processing o foro stenopeico, etc. etc...
è vero che il risultato finale con questi mezzi sarà tipicizzato però, per come la vedo io, è anche vero che avendo un ventaglio di scelte sui parametri quasi nulle lo scatto diventa più istintivo, salta alcuni passaggi interpretativi, si spegne una parte del cervello, la previsualizzazione si concretizza senza filtraggi, c'è un passaggio diretto tra pensiero azione, la fotocamera diventa il prolungamento del braccio....
insomma per impostazione mentale, meno ho e più mi sento libero di esprimermi, poi ovvio che con una fotocamera evoluta posso sempre scegliere di non usare certi diaframmi, di usare solo una focale, di creare una vignettatura etc. etc.
alla fine non è la caratteristica del mezzo a farla da padrone, siamo noi che scegliamo la holga o la polaroid o foro stenopeico o cross processing perché ci porta a ciò che abbiamo previsualizzato, l 'importante è distinguere la progettualità dalla casualità...
otto.
- Carlo Riggi
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Re: Quando "comanda" la fotocamera
Quoto questo passaggio. Nel mio modo di procedere non c'è alcuna previsualizzazione prima di uscire di casa (a meno di non dover fotografare un matrimonio). C'è una sintonizzazione, un umore, una vaga ispirazione, la sensazione di vedere meglio con degli occhiali piuttosto che con altri. Una volta fuori, la fotocamera diventa il mio occhio, il mio pensiero, la mia sensibilità. Siamo tutt'uno, e non penso più "mannaggia se avessi avuto quell'obiettivo o quell'altra macchina". Perché tutto quello che non posso fotografare con quel che ho non esiste.
Quanto alla casualità, ci credo più che in tanti progetti...
Ciao
Carlo
Carlo
- Ottavio Colosio
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Re: Quando "comanda" la fotocamera
Uno su tutti il libro di Massimo Gatti: Tracce di presenza umana.
Tutti gli scatti di questo volume con macchinette usa e getta o giu di li...
Tutti gli scatti di questo volume con macchinette usa e getta o giu di li...
Saluti
Ottavio
Matematicamente parlando, la fotografia è un'applicazione lineare da R3 in R2
Ottavio
Matematicamente parlando, la fotografia è un'applicazione lineare da R3 in R2